Importa poco di Venezia e Non Frega Tanto (NFT) di Tarantino

Venezia celebra sé stessa ed il politically correct. Vince All the Beauty and the Bloodshed, un documentario sugli oppioidi (problema derivato dalla malasanità americana), ma l’Italia si piazza al posto d’onore con Luca Guadagnino miglior regista con il suo amore-horror Bones and All, mentre il favorito Tàr, film su misura per Cate Blanchett che consuma lentamente i suoi personaggi ed il mondo della cancel culture fino a dissolverli in un finale thriller (nessuno spoiler), si consola con la Coppa Volpi.

Nessun film però sembra avere la capacità di portare il pubblico al cinema, quello vero, non quello che sembra un video gioco di Marvel o di DC Comics (ancora da vedere se la decisione sulla cancellazione di Batgirl da parte di Warner paghi), e Hollywood guarda subito al Festival di Toronto altro tentativo di spinning the wheel, che si può interpretare come girare la ruota della fortuna per augurarsi un film vero quali pochi o nessuno ce ne sono stati dalla pandemia, o nel senso americano di cercare di fare qualcosa senza riuscirci.

Tessa Thompson fa Cappuccetto Rosso, ma lo sa portare bene…

…mentre Timothée Chalamet davanti sembra un portuale vestito di seta, di dietro uno a cui hanno strappato la camicia di dosso.

E poi ci sono gli Emmy Awards per la televisione, altro settore in cambiamento, con i canali nazionali in chiaro ad inseguire gli streamers, a loro volta alle prese con un mercato saturo che li sta portando dove finì la televisione via cavo e satellite più di una decade fa: dover trasmettere pubblicità.

Infatti, ormai i canali nazionali come CBS, NBC e ABC (controllati rispettivamente da Paramount, Universal e Disney) sono diventati come lo show nell’intervallo del Super Bowl: palcoscenico per novità solo per la Middle America che ascolta musica country e a volte non ha neppure la TV via satellite (quella di serie fortunate come Ozark, Breaking Bad e Better Call Saul, per intendersi).

Al massimo i canali nazionali sono la palestra per capire il potenziale di nuove serie per i rispettivi streamers. Costa poco fare un pilot - l’episodio prova di una serie - perché i tre canali hanno funzionato con quel sistema da decadi. Più complesso, a volte impossibile per uno studio come Netflix che compra blocchi di episodi (in TV si chiamavano mini serie) e che non è attrezzato per un prova una tantum di mezz’ora o un’ora al massimo. Ma i costi per tenere insieme il circo dei tre canali sono troppo alti, ora che sopravvivono sui talk show del mattino e del primo pomeriggio, vero incubo di chi se li ritrova nelle sale di aspetto di ogni genere su apparecchi catodici che in Europa sono spariti dagli anni ‘90 e che in USA si possono ancora comprare nei discount di periferia. Magari i repubblicani, vincitori quasi certi delle elezioni di medio termine il prossimo novembre, si inventeranno un programma di sussidi Save Old TV per molti dei loro elettori.

Quale il futuro dell’Industry, allora? Difficile saperlo, e una notizia poco “gettonata” di questo weekend nel turbine degli Award non promette niente di buono. Infatti, Quentin Tarantino e la Miramax (quello che ne resta dopo il #metoo), dopo qualche mese di battaglia campale (solo legale per fortuna) hanno risolto una causa pilota, dopo aver entrambi speso milioni in avvocati.

Avvocati costosi ma che lasciano perplessi: il legale di Tarantino è noto per aver fatto perdere la causa dei Golden Globes contro NBC, poi transatta in appello, a cui è seguita l’eliminazione dei Golden Globes a cura della cancel culture. Una delle organizzazioni più progressiste di Hollywood si era infatti resa colpevole di non aver membri neri americani - pur chiamandosi “Associazione Stampa Straniera di Hollywood” e non volendo nessun membro “esterno” africano o inglese trasferirsi a L.A. per farne parte (che la dice lunga su quanto Hollywood abbia un immagine appannata!), ed è stata liquidata.

Ma tant’è. I legali di Quentin (personaggio particolare che ha recentemente dichiarato che non hai mai dato un soldo alla madre che vive in povertà perché “‘non mi prendeva seriamene quando a 16 anni volevo fare il regista”) e gli eredi di Weinstein proclamano un pareggio, ma più che altro è un non liquet su un oggetto virtuale che sembrava essere il Bitcoin del futuro per i creativi, gli NFT (non fungible token). Tarantino aveva creato scene inedite dalla sceneggiatura dell’iconico Pulp Fiction, che sarebbero state vendute in versione virtuale con NFT comprabili in Bitcoin, a generare tanti buoni vecchi biglietti verdi per il mitico regista (precisamente un milione tondo per l’unico NFT venduto prima della causa).Ma, dopo aver dichiarato che non c’era margine per una trattativa ai primi di settembre, pochi giorni dopo ecco l’accordo.

Nessuno saprà mai come e perché si è arrivati al compromesso, ma una ragione sussurrata, e neppure tanto, è che il mercato dei NFT sia già arrivato al capolinea, insieme al Bitcoin, a Twitter ed il suo ex-fan Musk.

Intanto le Tesla sono sparite per qualche giorno dalle strade di L.A. perché, a causa di un’ondata di caldo senza precedenti, l’uso delle colonnine o delle prese di ricarica dei veicoli elettrici avrebbe potuto causare blackout diffusi - il cambio climatico non distingue tra chi è carbon-conscious e chi no, anzi!

Avendo capito che presto non ci sarebbe stata più la mitica trippa per gatti, come si dice a Cinecittà, sia Tarantino che Miramax hanno lasciato perdere, o magari annunceranno presto una collaborazione per arrivare rapidamente ad introiti finché la barca dell’universo virtuale non colerà a picco.

Avanti tutta quindi senza preoccuparsi del Titanic Hollywoodiano che, oramai dall’avvento della pandemia, fa acqua. E tutti pronti per la Award Season con gli smoking (per i manager), i vestiti gender fluid per gli attori (meno per le attrici, si nota), e sempre meno spettatori ai premi, agli eventi e alle prime di film.
Poi, se va davvero male, ci sarà un decreto salva Hollywood che segue la legge Salva Silicon Valley sugli aiuti ai fabbricanti di semiconduttori!