Come è triste Venezia, come è forte Venezia
Con Hollywood lentamente soffocata dalla garrota del Covid, the Industry cerca di guardare ad un’Europa che vuole a tutti i costi ripartire. E così, ecco Venezia che apre il primo festival post lockdown (Toronto dovrebbe seguire, ma già si litiga su numeri chiusi e mascherine!) senza fan, con giornalisti distanziati su palchi deserti, sale con spettatori che devono gridarsi a vicenda per cercare il magico momento del chiacchiericcio che precede la proiezione di un film…e red carpet vuoto, con o senza mascherine, ma comunque surreale, perché il tappeto rosso è il mostrarsi per mostrare agli oi polloi, i fan che vivono la vita delle star per procura, mentre ora non c’è nessuno, solo la possibilità di vedere fotogrammi o video unidimensionali di star europee in televisione e sul web.
Star, per il cinquanta percento e più italiane, con americani completamente assenti; anche se nessuno si è chiesto come Matt Dillon e Oliver Stone siano riusciti a paracadutarsi sul Lido con il blocco dei voli dagli USA (forse la poco nota esenzione dalla quarantena “per improrogabili motivi di lavoro”?).
E la mancanza degli americani si fa sentire. Poco risalto al Festival sui trades, salvo le note della prevalenza di film italiani ed europei (e un - neppure poco sotto inteso - senso di superiorità tutta yankee), e gli accenni alle sconosciute star nostrane che hanno tanto glamour quanto una fettuccina Alfredo servita in un ristorante di New York con tovaglie a quadri e salami che pendono dal soffitto.
Anche gli altri europei sembrano defilati, Cate Blanchett presiede la giuria e fa del suo meglio, ma che, poveretta, non può produrre miracoli proprio perché il Covid ha messo il glamour in catalessi, ed il cinema senza glamour non fa presa sul pubblico, neppure quando ci sono degli ottimi film in gara.
Eppure questa di Venezia 77 formato Covid è un’occasione unica, un palcoscenico (anche se dimezzato) per il cinema italiano senza le ombre di Hollywood, e di pochi altri Europei. Ci sarà da vedere, dopo lo sforzo erculeo per far partire il festival e farlo svolgere in sicurezza.
Già scordati i titoli di inaugurazione, risalta, ma resta prodotto di nicchia, Notturno di Rosi (mentre The World to Come piacerà in USA, pur non dicendo niente di nuovo da The Favourite), o Padrenostro (bello e reale, ma troppo italiano per piacere fuori dal Bel Paese), o Le Sorelle Macaluso, perfetto per gli americani, perché ci presenta la solita Italia meridionale stracciona ed emotiva in stile latino americano (a quando un nuovo Gattopardo che pareggi i conti?) ma dai forti sentimenti, positivi e negativi non importa, che oltre oceano non sono in grado di esprimere.
Ma ci sono anche film stranieri: ha colpito Nomadland spaccato della vita non tanto on the road - come direbbe chi non sa l’inglese - ma off the grid con veri nomadi americani e la bravissima premio Oscar Frances McDormand (il marito è un produttore, ma non le ha fatto sconti per farla recitare!).
Un po’ scontato l’ennesimo film sulla guerra in Bosnia Quo vadis Aida, specie dopo venti anni. Per gli impegnati politicamente (e fuori concorso) ecco One Night in Miami, rivelatore delle leggi razziali americane che impedirono a Cassius Clay di festeggiare la sua vittoria come campione dei pesi massimi nel 1964 a Miami Beach causa coprifuoco per i neri (in Italia ai tempi il divorzio non esisteva ed era contemplato il delitto d’onore, come oggi in Pakistan e Afghanistan, comunque!).
La dinastia Coppola esordisce con la nipote di Francis Ford Coppola, Gia Coppola, in Mainstream, troppo generazione X di Los Angeles per essere apprezzato in Italia, e troppo lontano dai tempi dallo sforzo poetico (poco convincente) di Somewhere… e senza amici della regista nella Giuria (la zia Sofia, si disse nel 2010, vinse grazie a Quentin Tarantino in giuria!)
Ancora più interessanti i documentari: si distinguono Salvatore: Shoemaker of Dreams (diritti per gli USA già comprati da Sony) di Guadagnino (già candidato e vincitore dell’Oscar e quindi con pedigree in USA) e La verità sulla Dolce Vita, che ha molto potenziale, anche se forse per gli americani Fellini rimane una figura mitologica, non il solito italiano furbo ma alla fine semplicemente un bugiardo e genio (ma genio, o simpatico o arguto pensano di esserlo tutti gli italiani!).
Chiude The Rossellinis, documentario personale, forse un po’ troppo, anzi si potrebbe parlare di egocentrismo come malattia famigliare con chi non lo sia abbastanza vittima di chi lo abbia troppo! Ma pare che il documentario abbia salvato Alessandro Rossellini dalla tossicodipendenza, quindi qualcosa di buono nel film c’è, con tanti auguri a chi non è milionario e deve curare la tossicodipendenza con il metadone dell’ASL e non con le riprese delle sue chiacchiere con Isabella Rossellini!
Chi vincerà? Importa poco, perché quello che dovrebbe vincere è il cinema puro, senza il glamour e come manifestazione artistica, senza l’eccesso di Hollywood, e con pellicole che sono espressione di creatività, insieme alla voglia di riprendere le nostre vite pre-covid. Lo sapremo a breve…
Aggiornamento: Vince Nomadland, entrato in concorso a un’ora dalla scadenza, Leone d’argento ex aequo al giapponese Wife of a Spy e al messicano Nuevo Orden, e Premio Speciale della Giuria al russo Dear Comrades su un episodio poco noto di ribellione sovietica durante la guerra fredda.
Nessuna pellicola italiana tra i film premiati, ma Pierfrancesco Favino si aggiudica la Coppa Volpi come miglior attore con Padrenostro, mentre Pietro Castellitto (figlio d’arte) vince come sceneggiatore nella sezione Nuovi Orizzonti con I Predatori, un altro film sorprendente strano e tutto italiano.
Sono sempre due premi in un Festival monacale, se non ieratico, che ci mostra come sarebbe il cinema se non ci fosse la perfetta macchina da guerra Hollywoodiana a governarlo.
Ricordiamoci di Venezia 77 per i film e per le occasioni perdute.