C’era davvero l’innocenza di Hollywood?
C’era una volta Hollywood riceve sei minuti di applausi e si consacra come il film di cui tutti parlano a Cannes. La pellicola (lunga, ma Tarantino può permettersi oltre due ore e mezza ed altro), incentrata sulla Hollywood di fine anni sessanta, incrocia le storie di un attore di film di azione sulla via del tramonto (Leonardo Di Caprio) e del suo fido stuntman (Brad Pitt in ottima forma, anche se non più il sex symbol di anni fa) con le vite della Los Angeles sconvolta dai massacri della setta di Charles Manson.
Questo, in USA, viene visto come un avvenimento epocale che culmina con l’assassinio di Sharon Tate, attrice e moglie del regista Roman Polanski (sì, quello che non può rientrare in USA da venti anni per le accuse di pedofilia, alla faccia dell’innocenza di Hollywood di quegli anni!) impersonata dalla ormai consascrata superstar Margot Robbie.
Tipico di Tarantino, assistiamo ad una elaborazione in chiave del tutto personale della Hollywood di quei tempi secondo come la ricorda il regista.
Tarantino la vuole innocente non perché lo fosse davvero, ma perché l’innocente era lui, bambino di meno di dieci anni che quindi guardava tutto con gli occhi ammirati di chi appena inizia a scoprire il mondo degli adulti.
Ma dato che Tarantino è geniale nella sua abilità a ricostruire fenomeni di costume dell’America dalle spalle larghe che precede la fine della Guerra Fredda, non importa che il messaggio del film sia che Hollywood non è mai stata innocente, ma vale di più la carrellata di cameo di ex star di quel periodo che è solo un vezzo. Pur essendo Pitt e Di Caprio bravissimi, la Robbie è stata trascurata, specie per il personaggio che interepreta e la tragica fine che fece.
Ci ha quindi visto giusto la giornalista del New York Times che ha rovinato la festa della conferenza stampa (che non è altro che pubblicità) la quale, alla domanda sul perché Margot Robbie abbia avuto una parte manifestatamente più limitata dei protagonisti maschili, si è vista apostrofare con un “la sua ipotesi è rigettata” da un Tarantino visibilmente contrariato. Ma la Robbie avrebbe potuto dire di più non semplicemente in quanto donna, ma in quanto interprete di un personaggio pubblico dei suoi tempi, vittima di un gruppo di pazzi satanici (Manson aveva appunto fondato un culto satanico) che avrebbe meritato una elaborazione migliore.
In realtà, il peso diminuito della Robbie altro non è che lo specchio del modo di fare film di Tarantino. Altri personaggi, a cominciare da Al Pacino, agente dell’ormai finito Di Caprio sono appena tratteggiati, mentre chi fa da padrone è la perfetta ricostruzione della Los Angeles di fine anni sessanta, con tanto di camei fin troppo numerosi.
La città degli Angeli è la vera protagonista del film, ma in modo apparentemente univoco. Infatti, il “personaggio Hollywood” non riesce a condividere la sua anima di quei tempi con lo spettatore, ma si presenta solo come una perfetta quinta cinematografica ricostruita da Tarantino in modo maniacalmente esatto, quasi fosse un maestro scenografo, non un regista a tutto tondo.
Ma davvero quello che è visto da tutti come uno dei protagonisti del cinema contemporaneo può essere così limitato?
O piuttosto l’unico modo per capire che anima abbia Hollywood, oggi (o quando avrebbe dovuto essere innocente), è comprendere che la Mecca del Cinema non ha mai avuto un’anima perché la sua unica anima è quella dell’apparenza?
What you see is what you get come dicono gli americani. Se così fosse, saremmo in presenza di un capolavoro nascosto, e di un colpo di genio di Tarantino che è già in odore di Oscar.
Oscar che prenderà non per aver reso magistralmente quanto sia vuota Hollywood ricostruendone perfettamente un’epoca, ma perché Hollywood adorerà questa pellicola, ennesima autocelebrazione di Tinseltown, animale meraviglioso che si specchia ammirato, ma che non si rende conto di essere altro che un riflesso di sé in un pezzo di vetro.