C'era una volta Hollywood e c'era una volta Cannes
Il Festival con la “F” maiuscola comincia dopo il “colpaccio”: Once Upon a Time in Hollywood avrà la sua premiere mondiale a Cannes.
Quentin Tarantino ce l’ha fatta a completare la pellicola a tempo, dopo molti tira e molla in post produzione causati dalla complessa lavorazione in 35 millimetri.
Inevitabile l’Oscar buzz, probabilmente il più presto nella storia recente.
Nonostante tutto sia cominciato quasi in sordina, dato che hanno fatto notizia gli spacchi nel vestito della ormai tramontata Eva Longoria, la cui collocazione sul red carpet del film inaugurale The Dead Don’t Die (senza infamia e senza lode secondo i trades) è dubbia, e ancora meno si capisce cosa un festival, che vuole essere culturale, possa ricevere da Jeremy Meek “il carcerato-modello”, nel senso di pregiudicato scoperto per il suo look da una foto segnaletica virale.
Ha fatto più notizia la lite del direttore del Festival con una bottiglia di plastica non gradita durante la conferenza stampa inaugurale, che l’anticipazione per i party (ridotti ai minimi termini).
Vanity Fair tiene duro con il suo evento all’Hotel Du Cap, così come resta il solito benefit della straricca Hollywood Foreign Press.
I party sullo yacht di Paul Allen sono storia dopo la scomparsa dell’anfitrione, e persino Dior ha cancellato quello che era uno degli eventi principe.
Ci si chiede perché, e la risposta è semplice: dopo la distruzione di Harvey, l’anno scorso, Netflix ( nemico numero uno) e Disney (che ha ingoiato la Fox, uno degli studios più “party animal” nel suo bozzolo family style) hanno dato forfait al festival.
Il rumor è che Venezia effettuerà il sorpasso, forse non di film distribuiti (dopotutto Cannes ospita, contemporaneamente al festival, il mercato del cinema più importante d’Europa), ma sicuramente di cool factor.
Il problema del Festival è proprio Hollywood, da cui ormai Cannes dipende, ma che è cambiata completamente negli ultimi cinque anni e che continua a cambiare.
Quello che renderebbe Cannes apprezzato a L.A. non sono tanto le percentuali di film diretti da donne, quanto l’inevitabile avvicinamento (o resa, secondo i francesi) a Netflix e Amazon, che i cugini di oltr’alpe non vogliono negoziare: essendo il cinema europeo più artistico di quello USA, questa necessità ancora non si è presentata dal lato orientale dell’Atlantico.
La giuria ed il suo presidente il messicano Alejandro González Iñárritu (che vive a L.A. e ha vinto due Oscar) insistono che il cinema è esperienza collettiva e lo streaming non lo è.
Hanno ragione ma, è solo una questione di tempo prima che si ci renda conto, purtroppo, che il progresso digitale e la mancanza di interazione umana tradizionale vanno mano nella mano. Hollywood, basata sui soldi, lo ha capito (o lo ha dovuto capire per gli azionisti degli studios), mentre gli europei guardano al tutto con un metro di misura dell’evoluzione diverso.
Quando sarà necessario cambiare, potrebbe essere troppo tardi.
È indicativo che il film più atteso sia proprio C’era una volta a Hollywood che descrive in modo mirabile, solo come Tarantino sa fare, il cambiamento dal cinema visto dal mondo degli stuntman nella Los Angeles degli anni ‘70, ben nota in Italia grazie ai telefilm dei primi anni 80: da Starsky e Hutch, a Chips, a Le Strade di San Francisco, fino a Charlie’s Angels.
Quentin Tarantino catapulterà l’attenzione dei media sulla Croisette e il terzetto Pitt-Di Caprio-Robbie (l’attrice australiana già vincitrice di un Golden Globe per I, Tonya), ma senza la macchina pubblicitaria (efficiente, spietata e, abbiamo saputo nel 2017, perversa) di Harvey Weinstein al suo fianco.
Basterà a risollevare il Festival e a far ricredere Hollywood?
Los Angeles si sta svuotando, perché tutti sono a Cannes, quindi la Città degli Angeli una chance alla Perla della Riviera la vuole dare. Attenzione che non sia l’ultima, e che dopo C’era una volta a Hollywood, la campana non suoni per Once Upon a Time in Cannes.