Hollywood Dogman
La Hollywood Foreign Press ha scelto. Alle 5 di mattina di un giorno piovoso come i luoghi del film in inverno (a Hollywood la pioggia fa più notizia del cinema), le candidature ai Golden Globes sono definitive.
Dogman di Matteo Garrone non ce l’ha fatta. Roma (inevitabile: lo produce Netflix e racconta della povertà di Città del Messico e dei dimostranti progressisti, cose da far diventare il Trumpone rosso Ferrari, altro che arancione!) diventa il film da battere, essendo anche uno dei candidati a miglior film. Saltato il russo Sobibor, il meraviglioso finlandese Milite Ignoto, che meritava di vincere, essendo un film di guerra di un paese che è tra i più pacifici del mondo e che è stato visto da quasi un milione di persone in un paese che ha 5 milioni di abitanti. Scelto invece il film belga Girl (che nessuno sa cosa sia, un po’ come il Belgio), il giapponese Shoplifters, che ha vinto Cannes, il tedesco Never Look Away, e il libanese Capharnaum. Tutti film su outsiders, su chi è escluso, su chi la società respinge.
Ma non l’outsider del Bel Paese.
Non sorprende perché Dogman pur essendo un bel film, Marcello Forte un vero talento, non funziona a Peoria (città americana che è la perfezione delle statistiche) e soprattutto, perché i membri della potentissima HFP, pur se sono tutti stranieri, essendo gli inviati di testate più (per l'Italia) o meno (per il Bangladesh) note, devono seguire se non almeno la pancia dell’America, quella della California. Ma per chi vede il cinema come arte, non come incassi (e conosce l’Italia di oggi), è indubbio che Garrone abbia fatto un ottimo film.
Le decisioni della Hollywood Foreign Press sono la cartina al tornasole dell’Academy, di americani duri e puri ma di cui la metà non va al cinema dagli anni ‘70
Ho visto Dogman alla sua prima americana in occasione di “Cinema Italian Style”, una rassegna di cinema italiano dell'American Film Institute in collaborazione con Cinecittà, ed è stata un'esperienza grottesca.
Il film è violento, duro e soprattutto triste: lascia un senso di perdita irrimediabile di ogni speranza per i protagonisti, anche perché ambientato in un posto orrido (il litorale domiziano abbandonato). Uno dei luoghi peggiori d’Italia, ma per una candidatura da Bel Paese, specchio del’Italia contemporanea sfigurata e abbandonata al suo destino, un perfetto contrappasso rivolto a chi ha scelto La Grande Bellezza qualche anno fa.
La pellicola scorre cupa. I protagonisti senza anima dispensano pochi sprazzi di umanità e riescono a malapena a risollevare lo spettatore dalla continua visione di vite nelle sabbie mobili del loro stesso squallore. Ma, incredibilmente, il pubblico ride. Sullo schermo, scene di violenza cruda, raccapricciante e inaudita sullo sfondo di uno squallore materiale e morale immane, eppure il pubblico ridacchia.
A volte si percepisce che sono sorrisetti con un accenno di riso (la violenza gratuita per ottenere droga), altre sono risolini "liceali" (un povero animale quasi ucciso), fino a grasse risate quando il protagonista richiude la sua nemesi in una gabbia per cani, e poi lo sfigura dalle botte appendendolo ad una parete con una catena da cane. Poi, ancora, risolini.
Mi chiedo chi sia stato invitato: maniaci, pazzi "certificati" (una delle delizie del sistema sanitario della California: si può ottenere una certificazione di pazzia per avere un sussidio).
Per questo aspetto pazientemente la fine della pellicola nonostante il senso di vuoto, tristezza, orrore e soprattutto disillusione perché tanto il film è bello quanto inappetibile per il pubblico USA, anche quello di nicchia: se i protagonisti fossero state gang messicane o russe forse, ma gli italiani brava gente? Impossibile, "out of character". Ma anche dal pubblico, una delusione. Niente pazzoidi certificati, eredi di Charles Manson, o scientologi del demonio.
Gli spettatori ridanciani sono solo in parte i soliti noti delle prime italiane di L.A., e invece sono principalmente americani che amano l'Italia (e dopo il film si chiederanno se sia il caso di continuare), curiosi (anche qualche turista del Minnesota in canotta anche se ci sono 12 gradi), oltre agli immancabili italiani, così detti “di Hollywood”, visti e rivisti a queste prime, ma mai ad un red carpet, un po' più stracciati, un po' più vecchiotti e acciaccati, un po' meno allegri di quanto me li ricordassi, ma sempre sostenuti (una delle frasi che sento da sempre "tutto bene col lavoro, tutto bene eh? Ma tu cosa fai?"). E i giurati dei Globes hanno ascoltato gli americani: l’Italia non può fare film di crudeltà, viltà e orrori urbani. Lasciamo quelle attività ai russi (che invece hanno portato un film di guerra anch’esso non scelto), magari ai “Latinos” (anche se Roma è a suo modo poetico), ma non ai nostri amici dello Stivale dell’Allegria.
Il Golden Globe ha portato fortuna a un personaggio dell’America dura e pura come Sylvester Stallone con Creed (Nato per combattere) che è stato distrutto dalla critica USA (a causa di rumors di molestie giorni prima dell'annuncio delle canditaure nel 2016?), ma grazie al Globe ha prodotto Creed 2 (uscito pochi giorni dopo la decisione del procuratore di Los Angeles di archiviare la seconda denuncia per molestie contro Rocky, leggi qui).
Peccato per Matteo Garrone, ma chissà se qualcuno sparito dalle scene negli anni ottanta possa risollevare (contro ogni previsione statistica) Dogman durante le votazioni per le magiche statuette e liberarci dall’etichetta del Bel Paese piacione dei ladri di biciclette e del neorelismo che nell’Italia di oggi il 70% della popolazione non sa cosa sia e che rimane congelato nell’immaginario USA come le scatolette di pomodoro con lo stemma dei Savoia che sono le stesse dagli anni ‘20, e che gli americani comprano più volentieri di qualsiasi altra marca.
Buona visione da Hollywoodlander alle 5:45 del mattino, ora di Hollywood sotto la pioggia.