Bye Barbie
Puntuali come sempre intorno al terzo martedì di gennaio alle cinque di mattina o giù di lì (bisogna seguire i talk show della mattina sull’orario di New York), ecco le nomination per gli Oscar con appena qualche sorpresa rispetto ai Golden Globes che ne sono spesso i precursori.
Iniziamo dagli italiani, dato che finalmente ce ne è uno, Io Capitano di Matteo Garrone, che entra nella cinquina magica, dopo il digiuno del 2023. Ha poche probabilità, salvo che i giurati vogliano spingere sul tema dell’immigrazione, ma l’America profonda (che ancora costituisce il 50 per cento e più del Paese) non farebbe che confermare quanto Hollywood sia scollata dalla realtà.
Meglio invece il poetico Perfect Days del redivivo Wim Wenders che ha già vinto la palma per il migliore attore a Cannes, il più forte Society of the Snow, o l’allucinante Zone of Interest e persino il meno conosciuto ed introspettivo Teachers’ Lounge.
Ma dei film stranieri importa poco in USA, tutti si concentreranno su Barbenheimer, nome-tormentone dell’estate 2023 quando uscirono contemporaneamente Barbie e Oppenheimer. Il primo porta a casa l’Oscar del film snobbato (compresi i fischi all’annuncio della candidatura per miglior canzone) con “solo” otto nomination, il secondo con ben tredici, si guadagna il titolo di favorito.
Ma a Barbie (già snobbato ai Golden Globes) manca la candidatura di Margot Robbie come miglior attrice e a Greta Gerwig come miglior regista (Ryan Gosling, invece, è candidato come miglior attore non protagonista, insieme ad America Ferrera come miglior attrice non protagonista, quest’ultima una piacevole sorpresa).
Nella lista dei candidati “istituzionali” ecco Emma Stone per Poor Things (Povere Creature), e inaspettatamente Sandra Hüller con Anatomy of a Fall, che è anche candidato come miglior film, uno dei due stranieri in gara con Zone of Interest, che già aveva fatto parlare di sé a Cannes su quanto possa colpirci dentro la banalità del male. Narra della famiglia del comandante di Auschwitz che a poche decine di metri dal campo conduce una vita normale se non addirittura felice e di mezzi.
Al secondo posto per numero di nomination, Poor Things, assente a causa della tempistica a Cannes, ma dove la Stone sfodera la sue doti di attrice sotto l’egida del regista Yorgos Lanthimos, già vincitore a Venezia.
Chiude il podio degli assi pigliatutto l’altro grande favorito con dieci nomination, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, su un argomento fuori dal coro per il grande regista, con Leonardo Di Caprio (nessuna sorpresa) e la native Lily Gladstone in gara per la prima volta come migliore attrice.
Scorsese narra la storia poco conosciuta dell’ esproprio forzato (anzi, furto) delle terre degli indiani d’America da parte dei primi petrolieri dell’Oklahoma, per qualche tempo designata come territorio riservato agli indiani, e poi comunque colonizzata.
Merita menzione Maestro, prodotto come Barbie da un attore che vi recita, Bradley Cooper, ma di altro peso (persino le accuse di antisemitismo a causa del trucco di Cooper sono scivolate via); ma ha il problema di essere uscito troppo tardi per fare la campagna FYC (for your consideration), lo slogan di tutte le pubblicità dei film, che indica l’attività di marketing selvaggio per avere nomination e vittorie nella Award Season, la stagione dei premi di Hollywood, che termina appunto con gli Oscar.
Sorprendentemente tagliati fuori da qualsiasi nomination Ferrari (sembrava cosa fatta una nomination per Penelope Cruz) e il documentario American Symphony, prodotto dagli Obama (evidentemente, Hollywood li ama come politici, non come concorrenti).
Come al solito fioccano previsioni che verranno in parte smentite, ma un segnale pare esserci.
Innanzi tutto, per la prima volta dal periodo prepandemia, i cinema tornano a riempirsi, la qualità si affianca alle solite pellicole fumetto (anche se i film tratti dalle gesta dei supereroi si stanno esaurendo e Stan Lee non c’è più) e Hollywood, ancora più ingombrante del Titanic, sembra stia lentissimamente virando verso un equilibrismo tra politically correct (il movimento radicale woke ha già fatto il suo tempo) e mainstream, cioè quello che va bene all’Americano medio.
Anche i Golden Globes hanno seguito quella strada (la trasmissione ha battuto i dati di ascolto abulici del 2023, pur se è rimasta lontana dagli anni d’oro), e si sono splendidamente riciclati.
Riuscirà nell’intento il mitico Oscar, pur non essendo così cool come i Globes? Lo sapremo il 10 marzo, in una cerimonia sicuramente superblindata (la criminalità a Hollywood è tornata ai livelli degli anni settanta, quando l’intera zona era abbandonata come Detroit) ma che promette bene.