La Calda Estate degli Scioperi
Prima gli scrittori che a maggio, al famoso Met Gala a New York, hanno annunciato lo sciopero a oltranza (per la prima volta dal 2007). Gli studios e gli streamers come Netflix se lo aspettavano, anzi c’è chi dice che lo sapevano da mesi, come si dice che sanno anche quando e come far finire lo sciopero.
Le richieste degli scrittori sindacalizzati erano apparentemente ovvie: maggior remunerazione per far fronte all’inflazione che non si ferma, e poi un sistema diverso per le royalties sull’utilizzo del loro materiale nelle repliche i residual che spesso si riducono a pochi dollari, e abolizione dell’uso dell’intelligenza artificiale.
Sono andati avanti per due mesi, i talk show sono stati annullati, sostituiti da uno tsunami di repliche. Già allora non si vedeva una fine. Poco male perché gli studios e i canali televisivi hanno programmazione pronta per almeno altri sei-nove mesi.
Dopo poco più di due mesi è scoppiato il secondo bubbone, ma con il sindacato degli attori che, pur solidali solo a parole con gli sceneggiatori, hanno trovato un muro presso gli studios e gli streamers su rivendicazioni molto simili, collegate ai profitti per le repliche (che su Netflix e gli streamers sono però controllate dal consumatore che può vedere lo stesso programma decine di volte), e all’ormai noto problema del costo della vita, in un paese dove la perdita di valore dei salari ed il mancato adeguamento al costo della vita sono stati completamente sconosciuti per più di una generazione.
Faccia pubblica della agitazione Fran Drescher la famosa “Tata” del telefilm degli anni novanta e ora presidente eletta dello Screen Actors’ Guild, il potente ed ambitissimo sindacato degli attori (un aspirante attore può iscriversi solo dopo aver avuto una parte dove recita, quindi comparse e scene mute non valgono).
La Tata ha dichiarato che i quaranta milioni di dollari di bonus pagati all’amministratore delegato di Netflix dovrebbero essere “ridistribuiti” sotto forma di residuals (le royalties per le repliche) agli attori di programmi di Netflix. Considerato il proliferare di spettacoli in streaming, probabilmente si arriverebbe al massimo a qualche centinaio di dollari per attori principali e a pochi dollari per gli attori meno noti più una noia a firmare gli assegni (ancora usati per far pagamenti in USA), come immortalato in un episodio della situation comedy Seinfeld degli anni ‘90.
Chiaramente la Tata non ha menzionato i cachet delle grandi star, spesso a otto o nove cifre (mentre un attore medio guadagna meno di cinquanta mila dollari all’anno) che non sono neanche basati sul successo dei film, come i bonus dei grandi manager.
Appena proclamato lo sciopero si sono visti i risultati: la premiere di uno dei film dell’anno (la stagione delle prime in USA è l’estate), Barbie, si è salvata, mentre durante quella dell’altro potenziale campione di incassi, Oppenheimer, gli attori si sono alzati e se ne sono andati (il regista è rimasto, il suo sindacato ha rinnovato il contratto).
Poco male, ma attenzione perché, se pochi sentiranno la mancanza (in USA) delle star a Venezia, che è quasi scontato non veda nessun divo o diva americani, se dovesse saltare la Award Season autunnale sarebbero guai veri, anche se le majors (i grandi studios come Warner Brothers, Disney, Sony, Universal e Paramount) fingono di non preoccuparsi perché hanno film fino alla primavera, e le trasmissioni televisive, coprono anche loro fino almeno ad Aprile 2024 (e oltre per Netflix e colleghi), chi pubblicizzerà tutto questo alle prime, con gli immancabili red carpet? Chi farà da anfitrione ai junket, i lauti banchetti per i giornalisti e annessa conferenza stampa? Chi ci sarà per i pilot (i telefilm e serie “campione” che vengono presentati in inverno, per la stagione autunnale successiva, nella speranza che da un episodio ne seguano decine di altri?
Gli honcho, i super-manager di Hollywood, fumano per ora, ma più il tempo passa, più concorderanno che alzare i salari ed evitare disuguaglianze, anche se qualcuno è più bravo, può funzionare in Danimarca e nei paesi del Welfare State, ma non in America, dove la concorrenza ed essere vincitore - e non vinto - è la linfa vitale del sistema; e più cominceranno a pensare ad alternative, come i manager automobilistici negli anni settanta, che spostarono le fabbriche dalla Rust Belt di Michigan, Ohio, e Pennsylvania al Sun Belt di South Carolina, Tennessee, Georgia e persino della poverissima Alabama dove, sull’onda della Mercedes, seguirono i giapponesi ed i coreani.
Infatti, serpeggia una variazione sul ben noto you will never work in this town again (che a Hollywood si dice quando uno la fa così grossa da essere bandito) a WE will never work in this town again, trasferendosi a Nashville (dove vi è già il settore della musica country) o ad Austin, capitale del Texas, dove Elon Musk ha costruito una giga factory, dando l’addio alla storica sede californiana di Tesla vicino a San Francisco (costruita con centinaia di milioni di dollari di contributi federali sotto l’amministrazione Obama).
Seguirà il paradosso di chi dice invece che “vado a Hollywood a fare fortuna”, “vado in Tennessee a fare fortuna” che non solo non suona molto invitante, ma che potrebbe trattenere molti wannabe, aspiranti attori, produttori eccetera, dal lasciare le loro case nei posti improbabili da cui vengono: dopo tutto Hollywood è anche l’ispirazione delle palme e del cielo azzurro della California, non le zanzare e l’afa del Tennessee e del Texas.