La Chute d'Italie

Cannes si chiude sotto i cieli grigi di una primavera che sembra marzo, e l’unico paese europeo, a parte i padroni di casa, con più di due film raccoglie zero punti, in un altra preoccupante manifestazione del declino italiano.

Dopo il trionfo di Johnny Depp, incartapecorito ma sopravvissuto al processo intentatogli da Amber Heard (“non ho bisogno di Hollywood"), ottimo nel film storico Jeanne Du Barry, ecco il nuovo thriller di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, su una storia di omicidi di indiani d’America arricchitisi con il petrolio in Oklahoma dopo essere stati costretti a trasferirvisi dal governo federale.
Il trio De Niro - Di Caprio - Scorsese (anche se quest’ultimo dice “alla mia età posso fare i film che voglio”, promozione non proprio delle migliori), arricchito dall’interpretazione femminile di Lily Gladstone, riesce nell’intento di costruire un thriller sullo sfondo di una storia sconosciuta ai più, ma che rivela un periodo della storia americana ancora inesplorato e che meriterebbe più attenzione, specie a fronte dell’esagerato politicamente corretto che altre minoranze ricevono a Hollywood. Peccato che fosse fuori concorso.

Per la prima volta da tempo nessun film in concorso di lingua inglese ha vinto alcunché, nonostante gli applausi a May December con il duo superstar Natalie Portman - Julian Moore, o Black Flies con uno Sean Penn che dà il meglio in un film drammatico al limite dell’iperrealismo sulla vita di due paramedici in una New York invasa dal crack degli anni novanta.

Mal comune, mezzo gaudio: nessuno dei cinque film in inglese ha ricevuto premi come i tre film italiani in concorso.
Ma mentre gli americani si rifaranno con gli Oscar ed i Golden Globes e gli inglesi portano a casa il premio Un Certain Regard per l’opera prima How to Have Sex (Molly Manning riesce a comunicare doti di introspezione psicologia profonda dei personaggi su un argomento banale come le vacanze esagerate di tre teenager inglesi), il Bel Paese rimane a bocca asciutta e basta.

I tre film italiani in concorso riflettono tre generazioni di registi, ma mancano ogni obiettivo.

Partiamo dalla “giovane” (in Italia) Alice Rohrwacher, con La Chimera, una storia di tombaroli che ha ricevuto ottime recensioni da parte della critica inglese (il protagonista maschile principale è l’inglese Josh O’Connor), ma ci vuole altro che l’iconica Isabella Rossellini per convincere i giurati. Film interessante, ma non da premio.

Ancora meno convincente Sol dell’avvenire del più maturo (pensionato in molti paesi europei) Nanni Moretti. Il titolo malamente tradotto in A Brighter Tomorrow toglie agli spettatori di lingua inglese il gioco di parole sul concetto staliniano della stella rossa che rappresenta il nuovo mondo comunista, ma forse è stato fatto apposta per evitare un flop nei paesi anglosassoni (dove la parola comunista è un insulto e dove non ha ancora trovato un distributore). Innegabile però che Moretti sia (stato) comunista, ed anzi il gioco di parole collegato al periodo storico in cui si svolge il film rende molto meglio in italiano che in inglese. Però la pellicola non ha mai avuto una chance, lontana anni luce da La Stanza del Figlio che ha portato a Moretti la Palma d’Oro nel 2001. Autobiografico in modo un po’ stucchevole, e troppo ancorato ai dubbi e alle polemiche reali di Moretti sul ruolo della sinistra in Italia, il Sol dell’Avvenire si perde nei rivoli dei dubbi di Moretti persona vera, che confondono il film a chi non conosce il regista come personaggio pubblico e politico.

Bellocchio italiano al cento per cento: non sa che nei paesi del Nord Europa ed in USA tenere le braccia incrociate è un gesto di aggressività passiva.

Conclude il terzetto dei senza medaglie l’ultra ottantenne Marco Bellocchio con Rapito, la storia vera di Edgardo Mortara, bambino ebreo battezzato segretamente e poi strappato ai genitori ebrei nell’Italia vicina all’unificazione della metà secolo XIX. Già addocchiata da Spielberg, la storia era troppo italiana per poter essere portata sul grande schermo dal regista americano e, forse, troppo “leggera” per quello che Hollywood è abituata a vedere sull‘argomento. Film solido per Bellocchio ma non certo materiale di appeal internazionale.

In conclusione, un cinema in declino per un paese in declino che inizia a non riuscire a comunicare la sua cultura al mondo neppure nell’ambito artistico, persino in un settore che ci ha da sempre visti protagonisti. Un “sol dell’avvenire” coperto di nuvole.

A difesa di Bellocchio, agli americani è piaciuto poco anche il film vincitore del premio di miglior regista Jonathan Glazer con Zone of Interest sulla storia della vita di tutti i giorni di un comandante del campo di Auschwitz. Un freddo racconto che ribalta la nota storia sulla banalità del male, ed invece teorizza che non vi fosse nessuna banalità, quanto piuttosto uno cosciente svuotamento di ciò che rendeva ripugnante il disegno della “soluzione finale” per trasformarlo, attraverso un processo mentale sofisticato e cosciente, in qualcosa di banale, cosa che rende il film ancora più impressionante. Troppo poco orrido, o meglio, solo orrido psicologicamente, anche se molto più complesso e “pesante”, e dove non c’è nessuna possibilità di redenzione per nessun tedesco (tematica non cara a Spielberg che ha bisogno dell'‘ottimismo americano, di poco interesse a Glaser che è inglese).

Vince la Palma d’Oro Anatomie d'une chute della francese Justine Triet, un film drammatico-legale (la storia di uomo che muore, sembra, cadendo da una finestra e della moglie che finisce accusata di omicidio, mentre il figlio cieco diventa testimone dell’accusa), dove l’abilità della regista a sezionare il carattere dei personaggi in un crescendo di colpi di scena lo porta nel campo del film da premio, ben oltre il solito thriller, quasi una versione moderna dal punto di vista dell’accusato del famoso La parola ai giurati di Sydney Lumet del lontano 1957.

Il premio di miglior regista lo vince Trần Anh Hùng con La Pot au Feu, storia francesissima dell’amore tra uno chef e quello che oggi si chiamerebbe un foodie: eppure il regista è vietnamita.

In quale film le abbiamo viste? Nessuno!

Il gran premio della giuria va al finlandese Aki Kaurismäki per Fallen Leaves, storia di una missed connection tra due persone poco amabili ma, come tutti, alla ricerca disperata di qualcuno che le ami.

Il Festival si chiude su una nota ai red carpet, spesso bagnati, ma poco fortunati, pieni di influencer e persone che devono il loro successo al loro puro apparire e niente altro, ed ad una litania di star ormai vecchie o invecchiate, e ancora non sostituite, se mai lo saranno, ma che sono sempre presenti in forze grazie ai loro allori. Un po' come l’Italia (de)caduta che temiamo non si possa rialzare.