Everything e basta
Hollywood torna in pompa magna sconfitta la pandemia ma nell’anno della recessione che verrà tardi, ma pesante (in realtà i nuovi posti di lavoro sono quasi esclusivamente nell’ospitalità, settore tradizionalmente di bassissimo livello che ancora stenta a causa dei prezzi assurdi di ristoranti e alberghi spesso raddoppiati dalla pre-pandemia). Il tappeto rosso è color champagne e gli arrivi delle star sono all’interno perché da dicembre è piovuto più a L.A. che in Irlanda.
E la fabbrica dei sogni si rifugia nella fantasia e nel fantastico, quasi un genere nuovo, con Everything Everywhere All at Once che fa piazza pulita infilando sette delle undici nomination a cui era candidato. The Banshees of Inisherin e Tár rimangono a bocca asciutta nonostante oltre una dozzina di nominations in due. Ma gli irlandesi sono troppo integrati per essere interessanti, e la Cancel Culture contro chi è nel meccanismo dell’industry non sono certo filoni da promuovere ad Hollywood.
Meglio focalizzare sugli immigrati, anche se chi li recita è una attrice malese che ha fatto la maggior parte della sua carriera in estremo oriente, non negli USA, e vive in Svizzera quindi l’esatto opposto degli immigrati cinesi nel film vincitore.
Nulla da dire, anzi ci sarebbe da fare i complimenti a Michelle Yeoh per aver recitato una parte cosi diversa da quello che lei è. E per essersi furbescamente appropriata dell’etichetta di immigrata di una minoranza, senza che gli ingenui americani lo abbiano capito. Nessuna sorpresa, dunque.
Torna Jimmy Kimmel come presentatore: scelta non controversa che ha evitato risse sul palcoscenico, a differenza del 2022, e ha raggiunto il massimo dello scandalo quando ha preso in giro l’assente Tom Cruise (probabilmente spaventato dai riflettori a rivelare i suoi molteplici ritocchini del chirurgo).
Will Smith, lo schiaffeggiatore, è bandito dalla cerimonia, ma l’Academy gli ha concesso di far personalizzare l’Oscar vinto l’anno scorso, mentre Chris Rock, lo schiaffeggiato, ha snobbato la cerimonia ed incassato 30 milioni per un suo special su Netflix dicendo che il suo telefilm preferito è uno in cui Will Smith fa lo schiavo per l’esercito sudista perché “le prende più che le ho prese io.”
All’Ovest niente di nuovo, che avrebbe dovuto vincere miglior film, si deve accontentare della statuetta per miglior film straniero, oltre a cinematografia, set design e colonna sonora. Le guerre evidentemente non sono tutte ingiuste come Remarque ci voleva insegnare.
Anzi, nel solito exploit dalla bolla di Hollywood, l’Academy spara sullo Zar, e assegna la statuetta per miglior documentario a Navalny, cosa che renderà nulle le già remote chance di fare alcunché nella politica russa del maggior oppositore di Putin, e per una semplice ragione: meno del 5% dei russi non crede a Putin o a qualcuno peggio di lui.
Una sorpresa l’Oscar per il miglior attore. Vince Brandon Fraser con Whale, storia molto americana di un professore obeso che è diventato tale a causa della completa mancanza di una rete di protezione famigliare della società USA.
L’attore era sparito dai primi anni duemila, ed era tornato alla ribalta durante il #MeToo per aver accusato di molestie il presidente dei Golden Globes, Philip Berk.
Questi rimase al suo posto fino ad essere defenestrato nel 2021, durante la purga dei Globes per mancata diversità. Aveva chiamato il movimento Black Lives Matter “razzista” in un Twitter, dimostrazione che la Hollywood Foreign Press pensava di essere intoccabile anche senza la protezione di Weinstein (essere bianco sudafricano non lo ha aiutato).
Nulla per Andrea Riseborough con To Leslie, film sconosciuto che ha avuto pochissima audience (ventisettemila dollari di incassi) e ha condotto una campagna pubblicitaria utilizzando i social media delle maggiori star (da Gwinnett Paltrow a Susan Sarandon) fuori dai canoni tradizionali (visite ai set e cene), sorprendendo con la nomination.
Ma tutti si sono molto raffreddati dopo un articolo del New York Times che ventilava motivazioni razziste nella campagna, essendo l’attrice inglese bianca e avendo soffiato il posto a possibili rappresentanti di minoranze.
Posizione che male si addice alla vincitrice dell’Oscar Michelle Yeoh, che è cinese della Malesia e non americana e quindi, per definizione, non una minoranza USA, e che vive in una villa a Ginevra con Jean Todt di fama Ferrari. Eppure nessuno ci fa caso, perché la casella che avrebbe dovuto essere di Angela Bassett (in predicato di vincere per Wakanda Forever, ha perso e malamente) è rimasta coperta con un premio più prestigioso (miglior attrice protagonista contro miglior attrice non protagonista). E per finire un altro asiatico – questa volta un immigrato “vero”, arrivato su una zattera dal Vietnam, meno male! – Ke Huy Quan ha coperto con l’award di miglior attore non protagonista.
Ma tutto questo glamour nel politicamente importa poco a chi conta, cioè a chi fa girare la macchina dei soldi di Hollywood. Gli ascolti e il pubblico nei cinema continuano a calare, gli streamers ormai la fanno da padrone (anche se Everything è prodotto da uno Studio indipendente) e hanno distrutto le sale cinematografiche; ma senza risollevare l’industry, che si avvicina a grandi passi all’avveramento della profezia da Cassandra di Barry Diller, leggendario honcho, cioè capo, di ben due studios, Paramount e Fox: “the movie business is over”.
Ma cosa lo sostituirà? Hollywood se ne preoccuperà dopo aver smaltito le sbornie dei party e i dati sull’audience.