Il Potere di Oscar

Eccoli finalmente: ridotti di due terzi gli invitati - persino l’attrice protagonista di West Side Story non ha avuto un biglietto dai Disney Studios fino all’ultimo secondo - con tre presentatrici all’insegna del politically correct (nere, gay, curvy in diverse combinazioni), gli Oscar tornano dopo una parentesi di due anni zoppi a causa del Covid, nei quali gli ascolti già in ribasso sono finiti sotto a quelli di una finale universitaria di football americano.
Ed il livello sottotono delle due precedenti edizioni. non ha permesso a Hollywood di appropriarsi dell’insegna del politically correct pienamente fino ad oggi. Alla faccia della guerra in Ucraina che alla fine all’America di Hollywood interessa poco perché gli eventuali rifugiati sono istruiti, europei e c’è rischio che capiscano l’inglese di Melania Trump meglio di quello di Kamala Harris e votino repubblicano o non si iscrivano ai sindacati (sorry Sean Penn niente boicottaggio degli Oscar a nome di Zelensky!).

Diamo qualche voto:

Il red carpet pare decente al di là dei baci saffici più di connotato politico che vera affettività (gli americani sono notoriamente poco abituati alle effusioni in pubblico). Voto 6

Chi spicca? Ma naturalmente Penelope Cruz and Javier Bardem, coppia inossidabile e vera immagine del glamour. Voto 9

Le presentatrici? Non ci siamo: forzate, non all’altezza, poco affiatate, e volgari per salvare il salvabile (ma senza riuscirci). Ecco il risultato dell’essere troppo politicamente corretti. Voto: 4

Gli show durante lo spettacolo? Perfetti se gli USA riflettessero la composizione etnica di Atlanta, neppure di New York o Los Angeles. Certo non votati all’armonia etnica americana, persino per le due coste. Voto: 5 sulle coste, 1 altrove.

Le presentazioni dei premi. Qui spicca il pugno di Will Smith al comico Chris Rock per la battuta sulla moglie di Will che ha un problema di perdita dei capelli, e l’insulto di Smith al comico (che avrebbe potuto far arrestare l’aggressore ma che ha fatto il signore evitando di denunciarlo). Voto per Will Smith: 2.

Ma veniamo ai vincitori. Dune, un colossal con dieci nomination, porta a casa ben sei statuette, ma sono tutte per Oscar più tecnici come cinematografia, effetti speciali e colonna sonora. The Power of the Dog, (Il potere del cane, da una citazione biblica) pellicola pseudo western controversa che era il favorito con 12 candidature, è finito con una sola statuetta (miglior regista).

Sorrentino non ce la fa, come era probabile, perché il favorito era Drive my Car, poesia giapponese, drammatico eppure soffice e silenzioso, anche se un po’ lungo. Voto: 8.

Una novità sono stati i momenti dedicati agli anniversari di pellicole famose. Prima Il Padrino (50 anni) con De Niro messo molto meglio di Francis Ford Coppola che poteva parlare a malapena e Al Pacino suonato. Un po’ meno comprensibili i 28 anni di Pulp Fiction, con John Travolta calvo, Uma Thurman un po’ appesantita, e Samuel L. Jackson inossidabile. Forse per indispettire Tarantino (assente sul palco) che ha fatto causa a Miramax per i diritti sul film nel mondo parallelo del metaverse. Voto: 6.

Ventotto anni dopo… Ma nessuna battuta di Chris Rock su John Travolta

Per attrice non protagonista vince Ariana DeBose, di West Side Story con un discorso di ringraziamento di nuovo divisivo dove spicca l’uscita “C’è posto per noi gay”. Non sarà la prima nella serata. Disney recupera poco la gaffe del mancato invito per l’attrice protagonista Rachel Zegler fino a quando la notizia è stata diffusa sui social. Voto: a Disney Studios: 0. Ad Ariana DeBose: 6.

Miglior attore non protagonista Troy Soktur, primo attore non udente a vincere la statuetta. Meritata senza dubbio e qui è più che comprensibile il discorso a sostegno dei portatori di handicap uditivo. Voto: 8.

Miglior regista la veterana Jane Champion per The Power of the Dog, suo secondo Oscar dopo The Pianist. E che sia una veterana si vede: il discorso era pronto, è stato di classe e sul punto (il cinema unisce non deve dividere), ed è riuscita a ringraziare tutti quelli che contano, compresi gli altri candidati, in meno di un minuto. Voto: 9 (anche se il suo film è un western che non è western e a molti non è piaciuto).

Migliore attore Will Smith, per King Richard, la storia delle sorelle Venus e Serena Williams, che trascende la razza e che, anche se si svolge nel ghetto nero di Los Angeles, ha per protagonista non tanto le Williams, ma il valore fondamentale della famiglia portato da papà Williams, un valore poco sentito dall’America di oggi. Voto 8, ma 5 di media con il 2 della scenata a Chris Rock.

Miglior attrice Jessica Chastain per il meno noto The Eyes of Tammy Faye sulla bizzarra moglie dell’evangelista (poi caduto in disgrazia per prostituzione) ultra conservatore Jim Baker. Il suo è il discorso più politico degli Oscar ed avrà fatto rivoltare nella tomba la Baker. Voto: 6.

E miglior film è l’indipendente CODA, pellicola francese in versione americana che è andata lontano: racconta la storia di una ragazza figlia di genitori sordi che vuole diventare una musicista. Film poetico, di nuovo fondato sui valori della famiglia, e scommessa (da 25 milioni di dollari, tanto ha pagato il gigante di Tim Cook per i diritti di streaming) di Apple. Voto: 8.

E proprio dalla vittoria di Apple, indiscusso protagonista, con Netflix umiliato da 27 nomination ed una sola vittoria, la Mela uguaglia Netflix per numero di statuette appena tre anni dopo aver lanciato il suo canale di streaming Apple +. Ma, soprattutto, questi Oscar segnano la consacrazione definitiva degli streamers. Era solo il 2017 quando l’Academy, spinta da Steven Spielberg, propose di escludere i giganti dei film on line. Il Covid ne ha invece fatto la fortuna, facendo sopravvivere Hollywood (le catene di cinema sono invece decotte o fallite), ed ora la stranezza sono le vittorie degli studios. Il loro leader è Warner con King Richard e Dune; la celebrata MGM, ora di Amazon, ha una sola vittoria con la miglior canzone No Time to Die della geniale Billie Ellish. L’unico studio indipendente a portare a casa una statuetta è Focus Features con miglior sceneggiatura originale per Belfast (magnifico bianco e nero sulla storia dei Troubles nell’Irlanda del Nord, visto dagli occhi di un bambino protestante). Paramount, lo studio con maggior storia a Hollywood, rimane a bocca asciutta e questo è davvero un segno dei tempi.

E i party? Si comincia presto con il viewing party (per chi agli Oscar dal vivo non è stato invitato e quest’anno erano in tanti) di Elton John, a cui però le star invitate passano post cerimonia, anche per sostenere l’agenda della lotta all’AIDS. Oggi la malattia si può curare fino alla remissione, ma sembra incurabile e che potrebbe fare “fino a 500 milioni di vittime che abbiamo salvato” secondo il compagno di Elton John.
Seguono il Ballo del Governatore (dove tutti fanno presenza ma che pochi hanno mai ricordato come il più cool), a cui segue il party top-Vanity Fair- , mentre tutto si conclude con gli after party nelle case dei filantropi di Hollywood (quest’anno sorvegliate da guardie armate visto il livello di criminalità post Covid). Voto: 9 (solo per esser riusciti ad esserci e a bandire le mascherine!).

Per i rating degli spettatori ancora non ci siamo. I 15 milioni di audience sono un bel salto dai 10 milioni di telespettatori dell’anno scorso, un fallimento totale. Ma siamo ancora lontani dai 20 milioni pre-pandemia, che allora già furono un fiasco.
Oggi Hollywood si riposa, ma da domani medita in attesa di Cannes.