The show must NOT go on
In un’atmosfera surreale, complice anche la variante Omicron, si sono tenuti i Golden Globes, ex (per ora, da confermarsi nel 2023) award preferito dalle star, ex indicatore principale degli studios per gli Oscar, ex nutritissimo tappeto rosso e causa del blocco del traffico a Beverly Hills per il primo weekend di gennaio. Insomma ex tutto quello che L.A. rappresenta e ha rappresentato fino al 2020.
La cornice è la solita del Beverly Hilton, icona architettonica degli anni ‘50 che li ospita dal 1961. Anche lui presto “ex” perché verrà demolito per far posto ad un grattacielo di appartamenti extra lusso destinati ad essere comprati come bene rifugio da ricchi coreani e funzionari corrotti cinesi, o per ospitare star che vivono a New York quando sono “costrette” a venire a LA.
Nessuna star si è fatta vedere (il red carpet è stato abolito e l’atmosfera che si respirava sembrava un po' quella di una convention di commercialisti o forze vendita di medicinali), nessun “vero” giornalista di intrattenimento ha “osato” partecipare alla cerimonia, salvo un paio di “inviati speciali "(a caccia di notizie, o per sincerarsi che il fallimento fosse totale come comandato da star del calibro di Tom Cruise e Scarlett Johansson, e dai loro PR)… un salto nel tempo a quel lontano 1944, quando i Globes vennero per la prima volta consegnati in una cerimonia di cui nessuno sapeva nulla agli Studios della Fox (chiaramente le norme di conflitto di interesse già allora non erano molto stringenti).
In realtà i Golden Globes “moderni” esistono dal 1964 (quando furono trasmessi per televisione in USA per la prima volta) e, udite udite, sono stati sospesi dal 1968 al 1974 a causa di una multa comminata dall’Ente Federale delle Telecomunicazioni USA alla Hollywood Foreign Press Association (nota con l’acronimo HFPA) per aver ingannato il pubblico attraverso un meccanismo non trasparente di scelta dei vincitori. In quegli anni, infatti, per invogliare le star a presenziare, i PR delle star non erano avvisati della vincita del premio, e se una star non si presentava e risultava vincitrice, veniva sostituita dalla star che fosse presente.
Nessuno probabilmente ricorda i Globes cancellati nel 2008 a causa dello sciopero (durato mesi e mesi) proclamato dal sindacato degli scrittori, che aveva provocato la sostituzione di centinaia di scrittori di film e programmi TV (in USA è perfettamente legittimo sostituire i lavoratori in sciopero con altri sulla base di contratti a termine), e possibili disordini degli scioperanti alla cerimonia. Così, i Globes vennero annunciati da una conferenza stampa aperta a diversi canali televisivi. La NBC (che da sempre ha l’esclusiva) non la trasmise.
Non è quindi unico che in 58 anni di storia i Globes vengano cancellati.
Eppure sembra una rarità oggi.
Questo per le ragioni della cancellazione. Non si tratta del livello inesistente del giornalismo di molti membri (alcuni membri sono tali perché scrivono su riviste delle linee aeree), come fatto anche notare da un giudice federale.
I detrattori dei Globes pensavano che quella fosse la fine. Infatti nel 2012 il produttore della trasmissione su NBC (la notissima Dick Clark Production) negoziò un contratto a termine perpetuo con NBC senza far intervenire alcun rappresentante della Hollywood Foreign Press; il severo giudice Matz diede ragione al produttore per aver tenuto i membri fuori dal negoziato a causa del “livello amatoriale” della loro esperienza in affari e dalla preoccupazione, non di ottenere un pagamento congruo per i diritti, ma di non far cancellare la trasmissione, dato che le vite dei membri “girano intorno a rapporti con le star” al punto che la Hollywood Foreign Press approvò il primo contratto per acclamazione “senza neppure un voto dei soci.”
Né si tratta dei conflitti di interesse dei membri della Hollywood Foreign Press con gli Studios, sfociati della candidatura all’ultra mediocre Emily in Paris di Netflix, stroncato all’unanimità dalla critica, candidatura ottenuta dopo un junket (termine slang che descrive una cena o vacanza di lusso per persone non meritevoli allo scopo di estrarre qualcosa di cui lo sponsor ha bisogno) pagato dallo streamer consistente in cinque giorni a Parigi al noto Hotel Penisula da 1000 euro a notte per ben trenta membri dell’associazione.
Invece, quello che ha causato la fine dei Globe è la richiesta, o meglio l’ordine dagli Studios e dagli attori, a diversificare i membri con altri membri – amatoriali o no non importa – ma neri (essendoci già diversi membri ispanici e anche indiani, alcuni di questi ultimi recuperati tra i venditori di elettrodomestici di un grande magazzino ora fallito).
La sfida non è stata ancora vinta dalla HFPA che, essendo una associazione il cui statuto richiede che i membri rappresentino “testate giornalistiche non americane”, ha avuto poca fortuna nel reclutare giornalisti di colore accreditati dalla Motion Picture Association of America (associazione di categoria americana per americani) in Africa, Regno Unito e Caraibi per una semplice ragione: questi, o sono giornalisti amatoriali ad un livello inaccettabile anche alla HFPA, o semplicemente non sono interessati a trasferirsi a Hollywood in permanenza perché fanno vero giornalismo a casa loro (altro requisito dello statuto, probabilmente escogitato per escludere chi sia un giornalista importante nel suo paese). Chiaramente che i sudafricani nella HFPA siano bianchi scappati dal Sud Africa non ha certo aiutato!
La HFPA ha eliminato il requisito che i membri siano accreditati dalla Motion Picture Association of America, che aveva un pool inesistente di iscritti di colore tra i giornalisti di testate internazionali (quindi la HFPA avrebbe dovuto eliminare questo requisito dall’inizio per diversificare i propri membri), e ha nominato un “diversity officer” che è americano, viene dal prestigioso Aspen Institute e risiedeva in un posto che si chiama Brandeton in Florida dove dirigeva un’ accademia per studenti di colore a rischio.
Non sa nulla di cinema, non sa nulla di quello che succede fuori dagli USA, né lo potrebbe apprezzare (altrimenti si sarebbe suicidato a vivere a Brandeton), ma perlomeno non è un movimentista convinto che un approccio alle diseguaglianze sia la confisca dei beni dei bianchi o l’imposizione di tasse come “riparazione”.
Non avrà vita facile né lunga dato che gli attori, veri protagonisti dei Globes, sostengono i movimentisti.
Anche se Patrisse Kahn Cullors, la fondatrice di Black Lives Matters, ha abbandonato il movimento, dimettendosi non appena scritturata come produttrice dalla Warner Brothers. Leggi qui
La HFPA ha poi ampliato i ranghi (minuscoli con poco più di cento membri contro gli ottomila della Academy che dispensa gli Oscar), e ha invitato giornalisti di colore, che nelle gestioni precedenti non avrebbero ricevuto neppure un cortese no alla candidatura, come chiunque non fosse “presentato da membri” (o, si dice, gente conosciuta tipo Harvey Weinstein!) che ora riflettono le percentuali di neri in California, ma che non riflettono i “requisiti” dei movimentisti di Black Lives Matters: questi richiederebbero una maggioranza di neri per “rimediare” alle precedenti percentuali nominali di neri (come è avvenuto nella pubblicità: il 50 e più per cento dei modelli sono neri in tutti gli USA, anche in Montana o Alaska dove praticamente non ci sono consumatori neri).
Infine, molte delle disposizioni che davano adito a conflitti di interesse sono state abolite, ma non quella del requisito della “residenza” a Los Angeles, che dunque limita moltissimo i candidati, e che stranamente non è stata neppure nominata da chi ha subito sollevato il mantra del too little too late sulle riforme.
Quo vadis Golden Globes, dunque? Dal lato positivo, il Covid ha impedito al principale concorrente, il Critics Choice Awards (sconosciuto fino ad oggi) di occupare lo stesso slot temporale, impedendo di dare il messaggio che le star e gli Studios avevano abbandonato i Golden Globes. Ma tutto si ferma lì.
In un contrappasso dantesco, ora tutto dipende da come andranno gli Oscar. Se continua la caduta libera dei telespettatori che con la pandemia hanno realizzato che delle Star gli importa fino ad un certo punto, non ci saranno pretendenti allo slot del primo weekend di gennaio. La HFPA ha un altro anno per placare i movimentisti ed i loro importanti sponsor.
In realtà una soluzione salomonica è stata già prospettata dal produttore dei Globes: dividere i Globes in due società, una for profit e l’altra non profit. Chiaramente la società for profit, dove vale il puro business is business non sarà guidata da ragioni come diversità e inclusione, ma dal Dio Dollaro. Per quella non profit invece, varranno tutte le belle parole che contraddistinguono Hollywood e di cui a chi fa soldi a Hollywood non importa nulla: potrà continuare per la sua strada di diversità e inclusione, e consumare i quaranta e più milioni di dollari che ha in cassa per far contenti i liberal ma anche i radical. Finché i soldi finiranno, e dalle sue ceneri si alzerà la Fenice Americana: business è sempre business. Leggi qui
E i vincitori? Inutili e probabilmente non tanto da tenere d’occhio agli Oscar, quanto piuttosto da considerare esclusi se l’Academy non fa pace con i Globes. Vincono con Belfast e The Power of the Dog che consacrano gli Streamers, e West Side Story made in Spielberg che si porta via tre Globes (non letteralmente, i premi rimangono presso la HFPA perché nessuno vuole sporcarsi le mani a ritirarli).
Tra i film stranieri vince la poesia giapponese di Drive my Car, già vincitore della miglior sceneggiatura a Cannes oltre che a Londra. Rimane al palo la poesia napoletana di È Stata la Mano di Dio di Paolo Sorrentino, cosa che forse non è un male visto che i Globes per ora sono in tutte le liste nere di Hollywood.
A quando la prossima autocelebrazione di Hollywood? Non si sa. I Grammy a fine gennaio sono rinviati, Sundance (che segue i Globes) sarà online e tutti sperano che il 27 marzo Omicron sia un ricordo lontano per avere gli Oscar. Quello show deve continuare.