Emmy Pareva Strano…
Venezia snobbata da Hollywood senza grandi vincitori a stelle e strisce. Poca “grande bellezza” nella È Stata la Mano di Dio di Paolo Sorrentino per i trades, d’altronde il 95 per cento degli americani non sa chi sia Maradona e i film europei hanno poco buzz oltreoceano di questi tempi; subito dopo Toronto Film Festival con Belfast, uno dei primi possibili contender per l’Oscar post pandemia, e che segna il ritorno di Hollywood dal vivo, mentre sempre più film hanno premiere (anche) al cinema e gli incassi della pellicola del weekend (il solito videogame Marvel, ma un film al cinema dopo tutto) sono vicino ai 200 milioni totali per la prima volta dal 2019.
È toccato agli Oscar della televisione, gli Emmy, aprire ufficialmente la stagione degli Award 2021.
Cerimonia in tono minore, ma dal vivo; red carpet limitato, ma sempre un red carpet (abiti over the top per far dimenticare la pandemia); Cedric the Entertainer come presentatore catapultato dai primi anni duemila, pubblico contingentato, ma sempre pubblico, una “cerniera” tra la pre pandemia quasi dimenticata ed il nuovo mondo del “Covid come normalità”.
E Netflix ce l’ha fatta: 44 vittorie, ben oltre HBO che è stata la regina degli Emmy da tempo immemore.
Spiccano The Queen’s Gambit, miglior commedia e The Crown, miglior serie drammatica.
Chiude il top Ted Lasso di un altro streamer, Apple TV e anch’esso prodotto nel Regno Unito con attori per la maggioranza inglesi (vittorie che sanno di declino, per quanto minimo, dello strapotere Yankee in televisione).
Alla fine è solo noia, purtroppo, perché mancano i fan, mancano gli intasi del traffico per le prime cinematografiche di film insignificanti due volte alla settimana, manca quello che fa di Hollywood la fabbrica dei sogni.
Invece, tutto è unidimensionale, nelle immagini sugli schermi con presenze contingentate, nelle foto sui giornali, nel tentativo un po’ patetico di invitare solo i lavoratori sanitari ai pochi eventi.
Perchè al novanta per cento di loro importa poco o niente di stare in mezzo alle star a sentire frasi di circostanza. Così rimangono rigidissimi, e sanno benissimo che mai sarebbero benvenuti ad un red carpet in un mondo normale. Non sarebbe stato meglio regalar loro delle azioni di Disney o Netflix?
Ma a Hollywood non importa nulla, the show is going on, Disney annuncia licenziamenti e profitti, Netflix tocca nuovi record in borsa e, mancando i fan si ci lancia nel politically correct e tutti (ma tutti chi?) si compiacciono del fatto che i manifesti dei film e delle pubblicità riflettono “l’America di oggi”.
Si è passati da una media del 10 percento di presenze di minoranze in pubblicità ad oltre il quaranta percento in una sorta di contrappasso per cui chi è biondo e fico si ritrova senza lavoro a Hollywood perché troppo anglosassone, quasi fosse finita l’apartheid in Sud Africa (mentre naturalmente, negli stati dove l’apartheid c’è davvero, tutto continua come prima), o chi ha un fisico da Barbie e viene rimpiazzata da corpulente messicane nelle pubblicità dei prodotti di bellezza.
Ma si sa, il sistema americano non conosce mezze misure. Si deve solo sperare nella fine della pandemia degli opposti allarmismi di CNN e Fox, e nel ritorno alla torre di avorio di Hollywood come ce la ricordavamo, quella che permette a tutti di sognare da un divano sgangherato nell’Ohio o all’arrivo alla stazione degli autobus di Hollywood.
Per ora quei sogni li ha rubati il virus.