Oscars so passé

AP21114824413158.jpg

Il titolo non è casuale: è un famoso hashtag, #oscarsowhite, che nel 2018 ha portato l’Academy ad ampliare la sua base rivolgendo l’attenzione alle persone di colore nel business. Diverso dai Golden Globes, che stanno ormai nella stessa posizione di Harvey Weinstein alla prima denuncia, ma con qualche possibilità di uscirne con una purga di tipo staliniano dopo email incriminanti e le dimissioni in massa del “comitato diversità”. Leggi qui.

download.jfif

Dimissioni strane, perché il “comitato diversità” è esclusivamente, ed inspiegabilmente, composto solo da americani di colore, che non paiono sicuramente personaggi dalla visione cosmopolita, e quindi non si sa cosa possano insegnare sulla diversità a chi rappresenta 100 paesi in 90 persone. Forse c’è la buona educazione delle Prep School americane per l’élite indipendentemente dal colore della pelle, perché pecunia non olet (se uno si può permettere le rette), e quello che chiunque abbia mai lavorato sa: non scrivere nulla in una mail se non vorresti fosse letta da tutti. Ma, come disse Luigi Barzini e riprese Luca Goldoni in un celebre libro sugli pseudo-giornalisti: “sempre meglio che lavorare”.

L’Academy ha lavorato sodo: ora, dato che tutti in USA sono così aperti e poco razzisti, per partecipare agli Oscar è richiesto un determinato standard di rappresentatività di “gruppi esclusi”, pena l’esclusione dagli Oscar stessi nella migliore tradizione delle quote riservate che gli elettori della California (che hanno votato all’ottanta per cento per Biden) hanno sonoramente bocciato lo scorso novembre. Leggi qui.

In realtà, il fatto che debbano essere imposte regole draconiane per costringere un settore ultra-progressista come quello del cinema ad essere inclusivo, non dimostra che una cosa: gli USA rimangono purtroppo un paese profondamente razzista anche tra etnie che dovrebbero essere “oppresse” e percorso da sensi di colpa enormi, ma con nessuna voglia di affrontare il problema in modo obiettivo, utile e funzionale. Come dimostra il fatto che, dove le minoranze diventano maggioranza, non si raggiunge alcuna armonia, anzi, il contrappasso per chi fa parte della ex maggioranza è davvero spiacevole.

Perché tutto questo discutere? Perché è difficile riempire un blog sugli Oscar quando in realtà, degli Oscar non importa nulla a nessuno (già si è visto con i Golden Globes, calati in ascolto del 50% sul già pessimo risultato pre-pandemia del 2020). In oltre un anno di pandemia abbiamo imparato che, come si può lavorare senza avere un ufficio, vivere e socializzare meno e “sopravvivere” senza discoteche, night club, spa ed altre amenità, abbiamo anche appreso che si vive senza cinema, senza red carpet, senza occuparsi degli affari di persone pubbliche, a volte ancora più vuote del primo che passa per strada (e proprio per questo capaci di “diventare” qualcun altro che non sono sullo schermo).

Soprattutto, il cinema è diventato una passione per chi lo segue ed una attività per chi sa farlo, ma da élite. Un po’ come leggere libri o andare in un museo particolare (altra cosa senza la quale abbiamo continuato a vivere normalmente).

La “massificazione” del business riesce solo vendendo quello che circonda il cinema e la patina di glamour che Hollywood e i suoi spin doctors hanno creato fin dagli anni venti. Senza quella patina, sarebbe un po’ come vendere automobili non per spostarsi, ma perché fanno una bella figura ferme in un garage. 

f8a1ecca120b6ccbb9c8582d5ca399dde4-22-mank-bts.rhorizontal.w1100.jpg

 E, a proposito di anni ruggenti, il film che avrebbe meritato parecchie statuette (candidato per dieci categorie ma solo con due Oscar minori) è uno: Mank di David Fincher con Gary Oldman, la storia della sceneggiatura di Quarto Potere e di come MGM cercò di rubarla al suo creatore “dannato” per i tempi. Il film è in bianco e nero, lo stesso bianco e nero degli anni quaranta, e ci porta alla Hollywood di Viale del Tramonto che, dopo tutto, non è cambiata molto rispetto a quella di oggi: si è solo evoluto il modo con cui i creativi vengono calpestati (ma almeno oggi ci sono agenti su agenti per tutelarli!).

Vince, invece, il favorito Nomadland, pellicola on the road, che apre il cuore a tutti noi rimasti bloccati dalla pandemia, e Frances McDormand - che pare interpretare se stessa da quanto era sciatta e hippy alla cerimonia - porta via una statuetta come migliore attrice.

Miglior attore invece, l’icona Anthony Hopkins ne Il Padre. La terza o quarta, infatti non si è presentato a ritirarla.

Una statuetta a Youn Yuh-Jung come attrice non protagonista (meritata) la prende l’eccezionalista (non eccezionale) Minari: solita storia del sogno americano che dapprima è incubo, ma poi fa vivere felici e contenti i protagonisti.
Peccato che la Corea del 1980 da cui vengono i personaggi del film che emigrano in Arkansas, abbia ora un reddito quanto la California - che inspiegabilmente lasciano. E che l’Arkansas, ora, sia a livello di povertà sudamericana in confronto alla Corea: sarebbe stato interessante un finale dove i protagonisti tornano in Corea trent’anni dopo averla lasciata e ci lasciano con un interrogativo, “ma perché non tornare?”.
La regista Chloe Zhao (chissà se ha un nome in cinese!) da un lato viene venduta come “persona di colore” (ma lei preferisce parlare del traguardo raggiunto come donna regista) dall’altro si veste come una perfetta artistoide americana del Greeewich Village (basta confrontare il suo abito che sembrava di seconda mano con le mise di griffe dei coreani protagonisti) ha passato troppo della sua vita in USA, per pensare ad una variazione del genere.

H.E.R in un vestito “Blu Burka” chiaramente disegnato da qualcuno che non sa dove sia l’Afghanistan,  Peter Dundas

H.E.R in un vestito “Blu Burka” chiaramente disegnato da qualcuno che non sa dove sia l’Afghanistan, Peter Dundas

Tra i film stranieri nessun italiano - con Notturno pessima scelta, essendoci già L’uomo che vendette la sua pelle dalla Tunisia, e Quo Vadis Aida sulle guerre contemporanee.

Indicazione, soprattutto, che in Italia nessuno capisce quello che vogliono gli americani da un film italiano: non certo che parliamo di rifugiati di paesi che gli americani non conoscono e che non sanno neppure possano arrivare in Italia.

Se fossimo bravi nel marketing e conoscessimo gli americani, sarebbe entrato “La vita davanti a sé” (che ha portato una nomination a Laura Pausini).  

Pinocchio è piaciuto di più, specie nell’ambito degli Oscar “tecnici”, ma la storia è troppo vecchia e scontata, anche se Garrone l’ha resa eccezionalmente.

Vince invece il danese Un altro giro (Druk), perché a Hollywood i super progressisti scandinavi piacciono sempre - specie quando da loro si notano problemi sull’uso dell’alcol peggiori che in USA - e perché il regista tratta il tema in modo leggero, con calore e con umorismo quanto basta. Per questo, Thomas Vinterberg si è guadagnato anche una candidatura proprio come miglior regista.

Ieri: l’icona del Tower Hotel nel 2018  e il Red Carpet due anni fa per il party di Vanity Fair….

Ieri: l’icona del Tower Hotel nel 2018 e il Red Carpet due anni fa per il party di Vanity Fair….

La cerimonia è stata in parziale diretta nella bellissima stazione Centrale di Los Angeles, capolavoro dell’architettura art déco, circondata da tendopoli di senza casa come il Pan di Zucchero di Rio è circondato da baraccopoli (ma la California ha un reddito 10 volte superiore al Brasile e i Californiani pagano il quadruplo di tasse a parità di reddito dei cariòca!), e in altri tre posti differenti, con spettatori “controllati”, red carpet dal vivo, ma con dozzine di precauzioni (pur essendo vaccinato il 60% della popolazione a L.A. se non si contano i codici postali dal reddito e aspetto “brasiliano”). I tavoli nel salone sono lontani, le facce fintamente sorprese, il red carpet sottotono, ma soprattutto manca lo spirito di comunità (anche se a Hollywood vuol dire pugnalate alle spalle con un sorriso).

È vero che gli Oscar sono l’autocelebrazione di Hollywood ma, almeno una volta l’anno, s’ha da fare! Gli altri award sono praticamente spariti nella pandemia (salvo i Golden Globes che forse spariranno come award ed organizzazione!), e tutta la produzione dell’evento ha portato solo un senso di tristezza e di finzione assoluta che sia tutto normale.

Tanti premi e tante presenze forzate per le minoranze americane: la diversità è un’altra cosa e l’unico che può vantarsi di renderla davvero è Daniel Kaluuya, inglese di origine ugandese, che recita la parte di un infiltrato nelle Pantere Nere in Judah and the Black Messiah,. Non vi sono stati neppure strafalcioni politici per dare materiale a Fox News, salvo un caso, insomma noia da poche sorprese assoluta.

E oggi (il biglietto per il “Virtual Party” di Vanity  Fair che chiunque poteva comprare per venti dollari!

E oggi (il biglietto per il “Virtual Party” di Vanity Fair che chiunque poteva comprare per venti dollari!

L’altra mancata sorpresa saranno gl’indici d’ascolto infimi. E naturalmente nessun party. Hollywood è attaccata ad un ventilatore polmonare e viva a mala pena. Fino a quando lo dirà il pubblico…che farebbe bene a vivere di ricordi per qualche tempo, invece di pensare a tanta noiosa mestizia!