Hollywood Trifecta
Raramente Hollywood ha conosciuto una settimana densa di notizie come questa. Apre Sundance, il festival che precede tutti gli Award, noto per essere di ultra avanguardia, in un resort nello Utah dei Mormoni (infatti i party migliori sono quelli a Los Angeles la settimana successiva alla chiusura); poi la presidente dei Grammy, Deborah Duncan, viene licenziata in tronco per aver denunciato (come richiedeva il suo contratto di lavoro) la cultura macho e gli sfacciati conflitti di interesse in quella che è la Academy dell’industria della musica. Infine, comincia il processo del secolo New York versus Harvey Weinstein.
Ma andiamo per ordine. Per la prima volta a Sundance, Netflix non è arrivato per comprare (per la gioia dei ragazzotti con “progetti” di dubbio valore), ma per vincere con prodotti di punta. Fiore all’occhiello il documentario sulla star Taylor Swift, Americana, dove Taylor cerca disperatamente di dipingersi come “una ragazza qualsiasi” dicendo quanto sia stato scioccante per lei aver vinto il Grammy nel 2009, quando Kanye West (evidentemente drogato fino al midollo, ma nessuno lo ha fatto notare) è salito sul palco dichiarando che il Grammy per miglior canzone avrebbe dovuto vincerlo Beyoncé. Un problema che qualunque ragazza normale affronta quasi tutti i giorni.
Forse Taylor Swift dovrebbe imparare da Kanye che, quando sei una star, il tuo pubblico ti vuole star perchè vive per interposta persona, e quindi alle ragazze sovrappeso dell’Ohio interessa poco che Taylor finga di essere una di loro, ma vogliono che sia Larger than Life!
Il meno noto streamer Hulu porta un altro documentario che cerca di convincere il pubblico che le star (della musica, del cinema o della politica) are like us, come nel titolo di una fortunata colonna di una rivista gossip che pubblicava foto rubate alla quotidianità dei big di Hollywood. Con poca fantasia il documentario si chiama Hillary e cerca maldestramente di dipingere Hillary Clinton come una donna middle class di grande intelligenza che conduce una battaglia per le donne e, all’apice della sua carriera, per rompere il più alto dei soffitti di cristallo, la presidenza USA.
Hillary, tanto per gradire, ha concesso un’ intervista al giornale Hollywood Reporter dicendo che “Bernie Sanders sta antipatico a tutti, anche chi lo sostiene”, mostrando purtroppo di essere una perdente senza grazia (cosa detta da un altro notissimo gentleman di specchiata condotta, Donald Trump) e confermando quello che si capisce perfettamente dal film (e che l’auto referenzialità della Clinton e soprattutto degli autori ha fatto loro sfuggire).
Nel 2016 l’elitismo di Hillary, vendibilissimo sulle due coste degli USA, si è trasformato nel più semplice I don’t like her nelle campagne, persino tra le donne, ed è costato alla Clinton l'elezione.
I premi sono ancora da venire, ma i favoriti sono sotto il segno del rosso, oltre che di Amazon, anche se nessuno si aspetta lo super-shopping di Bezos dell’anno scorso (45 milioni di dollari spesi). Sundance continua e i vincitori li conosceremo il prossimo weekend.
Succulenta la notizia di Deborah Duncan. La neo-presidente della Recording Academy che distribuisce i premi Grammy è stata defenestrata dopo meno di sei mesi al suo posto. Interessante che la stessa academy l’abbia licenziata per mobbing (che in USA si chiama bullying, pochi lo sanno) della sua stessa segretaria, chiaramente pilotata. Eppure, il precedente presidente, in carica per dieci anni, era noto per essere un completo pazzoide e per comportamento ben al di là del mobbing.
Intanto la Recording Academy fa finta di nulla, i Grammy vanno in scena e vincono i soliti noti, per lo più ignoti in Italia. Dal rapper Savage, all’abbondante Lizzo, alla giovanissima e bravissima Billie Eilish che porta a casa cinque premi tra cui disco dell’anno con Bad Guy (e che sembrava onestamente sorpresa di trovarsi sul palco a ritirare premi, nonostante la mise assurda da “artistoide” firmata Gucci chiaramente suggerita da un PR “fumato”).
Tutti nomi sconosciuti ai più salvo se giovani, bravi a scaricare musica o con Pandora, e soprattutto ferrati in inglese e non nel Neomelodico.
Per chi non sa cosa sia Pandora, ecco il resuscitato Elvis Costello (canzone pop dell’anno) e l’incartapecorito Willie Nelson (solista country dell’anno). Rap dell’anno a Higher del gangster rapper Nipsey Hussle, in formato ologramma (eliminato da una gang rivale l’anno scorso).
Su tutto però ha aleggiato lo spirito del compianto Kobe Bryant (la cerimonia si svolgeva all’arena del basket dei Lakers, the house that Kobe built), scomparso in un incidente di elicottero la mattina dei Grammy, e che ha lasciato Hollywood sotto shock (vinse anche un Oscar nel 2018 per lo short Dear Basketball).
Terzo ed ultimo boccone prelibato di questi giorni è quello che doveva essere il processo del secolo, ma che è stato messo in ombra dall’impeachment di Trump. Lo Stato di New York contro Harvey Weinstein.
Entrambe le parti hanno faticato a selezionare una giuria. La modella Gigi Hadid è stata giustamente esclusa, e non perché conoscesse Weinstein.
Un aspirante scrittore ha avuto la buona idea di mandare un Twitter in diretta “come posso usare questa occasione per pubblicizzare il mio libro” (denunciato per oltraggio alla corte, deve presentarsi in udienza tra qualche settimana e dimostrare al giudice perché non merita la galera).
Dopo una serie di tentativi falliti della difesa per spostare il processo in una sede meno “calda”, le testimonianze sono iniziate con le ormai ex star Rosy Perez, che ha confermato il racconto della violenza di Weinstein nei confronti di una delle vittime, l’attrice Annabella Sciorra, nota soprattutto per la serie I Soprano, e soggetta ad un pesantissimo controinterrogatorio della difesa.
Naturalmente Harvey non testimonierà, come il 90 percento degli accusati, in un processo penale americano, anche se rimane improbabile che venga assolto con formula piena. La difesa, come si è visto in questa prima fase, punta al cosiddetto mistrial cioè l’annullamento del processo da parte del giudice, per poi sperare in una serie di accuse limitate e soprattutto in una sede lontana da New York City.
Il team di Harvey, composto da quattro avvocati principali e una dozzina secondari, è costosissimo e quello che pochi hanno rilevato è che Weinstein, pur essendo diventato un paria e pur avendo portato la sua società al fallimento, disponga di risorse ad almeno otto cifre. Eppure nessuno se ne stupisce. Questo perché non esistendo la costituzione di parte civile in USA, molte delle vittime hanno preferito concordare una soluzione transattiva con la Weinstein Company ora fallita, prendendo sì dei soldi, ma di fatto immunizzando il demone di Hollywood da qualsiasi futura azione personale contro di lui e aprendogli quindi la strada, nell’ipotesi di una assoluzione al momento improbabile, per un sequel degno del miglior film dell’orrore.