Welcome to the Grammys e Bienvenidos a Sanremo
Enorme il contrasto tra la consacrazione della musica USA ai Grammys di domenica a LA, e Sanremo, la noiosa competizione italiana in salsa latino americana come tecnica presentatori ospiti e contendenti il giorno prima.
Alicia Keys brava anche se un po’ troppo stile spiritual, e “siamo tutti fratelli” in salsa radical chic: dall’apparizione di Michelle Obama, a Dolly Parton che ha cantato la canzone usata dalla Senatrice super liberal Elizabeth Warren come colonna sonora del suo annuncio di candidatura presidenziale 24 ore prima: (come Trump con la Russia “non poteva non sapere”) . Coreografia perfetta anche se condita da svarioni culturali che solo gli americani possono commettere, quale Ricky Martin un portoricano nel balletto tutto Cubano “Havana” di Camilla Cabello.
Ma sempre ad altissimo livello di professionalità e con ritmi perfettamente calcolati; compresa una Miley Cyrus sorprendente che ha cantato canzoni della stessa Dolly Parton.
i vincitori? Sconosciuti ai più in Italia dove là fanno da padrone radio commerciali a livello terzo mondo, che trasmettono canzoni rottamate anche nelle discoteche più infime di Las Vegas solo perché i diritti costano meno (la musica streaming non riesce a far recuperare comunque la differenza): Childish Gambino è il primo rapper che ha vinto il titolo di “Disco dell’anno” con This is America e Kasey Musgrave, nuova promessa country, ha portato a casa il titolo per l’album dell’anno. Lady Gaga ha ricevuto tre premi, tra cui duetto dell’anno, (con Bradley Cooper incoronato a Londra ai British Film Awards) e migliore solista con Shallow , da È nata una stella.
Sconosciuta però Dua Lipa, migliore nuova promessa, come poco nota rimane Cardi B, miglior disco rap. Childish Gambino (ma chi è costui?) vince anche "miglior video, miglior canzone e miglior rap cantato; perché esiste anche un premio al rap parlato, e l’ha vinto King’s Dead di Kendrick Lamar, ex aequo con Bubblin di Anderson Paak.
Naturalmente, come a Hollywood, sono solo i membri della Recording Academy, cioè i produttori musicali, cantanti e scrittori, che votano i colleghi.
Niente giurie di parrucconi o giovanilisti egocentrici, né televoti che Putin potrebbe hackerare.
Altrettanto non si può dire del Festival della Canzone Italiana.
Cominciamo dalla location. Sanremo forse era di moda alla nel 1920 come luogo di vacanza, e il festival è nato anche per rilanciarla dopo la tragedia di una guerra mondiale. Ma adesso chi se la fila? Al massimo qualche russo in vacanza in Costa Azzurra per uno shopping a buon mercato. Un po’ come fare un festival di musica caraibica all’Havana pensando che sia meglio di Miami e dimenticandosi di sessant’anni di comunismo e oltre cinquantacinque di sanzioni.
Poi i presentatori. Siamo fermi alla guerra fredda: Baglioni-Botox? Loredana Berté con i capelli blu? Ma in quale film (dell’orrore)? La Vanoni? Mummificata come Breznev!
Le canzoni: non sono un intenditore, ma mi sembrano noiose, scontate, poco orecchiabili, e pure pseudo multiculturali, ma della cultura terzomondista che permea l’Italia di oggi con le puntuali polemiche che scimmiottano un Trump molto più bravo (e professionale, per i suoi scopi) dei nostri politici su Twitter.
Insomma, il tutto ricorda, ma là con meno mummie e molte belle ragazze, gli spettacoli di varietà sudamericani.
È l’ennesimo specchio di un’Italia che non è in declino, ma semplicemente non c’e, decimata nei suoi valori (se sono rimasti) ormai da decenni, incapace di reagire, sempre più disassata anche in quello che dovrebbe essere uno dei suoi forte, la canzone melodica. E il futuro è tutt’altro che roseo.
Si perché grazie all’influenza dei latino americani che vi si sono stabiliti, gli USA presto diventeranno una potenza di questo genere di canzone. E noi manderemo un milanese egiziano a Eurovision in Israele, dove non vincerà nulla.