Tour de Hollywood
Dal panorama di film che lasciano molto a desiderare che vengono proiettati giornalmente a Hollywood, saltano fuori a volte delle “chicche” che magari piacciono poco agli americani, ma che ti fanno rispettare chi ci ha lavorato, perché si vede che lo ha fatto con il cuore e non con il portafoglio o l’egocentrismo.
Appartiene a questa categoria Wonderful Losers (ancora non tradotto in italiano) il documentario lituano (ma prodotto e girato in Italia e USA) presentato all’Academy sui gregari del Giro d’Italia, uno sguardo unico ad un mondo sconosciuto ai più, appena noto agli appassionati, parte di una vita fatta di sacrifici sportivi per il “campione” il caposquadra destinato a vincere.
Il film si svolge tutto in presa diretta, il montaggio è minimo, quasi un reality show dei gregari, e dei medici che seguono il giro.
Sembra che manchi qualcosa, ma più che una mancanza è una scelta, la scelta di non avere filtri, di mostrare la realtà pura senza adulterazione da immagine e immaginazione dello spettatore, anche in un documentario. Il valore artistico del film, indipendente, sta proprio in questo, dell’essere riuscito a traslare le sensazioni dei suoi protagonisti del Giro, includendo lo spettatore.
Ma questo è anche il limite del film, come è apparso subito durante l’intervento del regista Arunas Matelis, un uomo piccolo, dal sorriso facile (per un lituano), chiaramente parte di quell’Intelligentzia di dissidenti delle repubbliche baltiche, sicuramente parte della Nuova Europa, ma schivo, timido e quasi spaventato dall’enormità della Mecca del Cinema in cui si è ritrovato. Quasi nessuno nel pubblico, salvo gli italiani, sapeva cosa fosse il Giro d’Italia, che sport fosse il ciclismo e come funzionassero le squadre ai giri famosi (come al solito i francesi sono più bravi di noi nelle pubbliche relazioni), perché il paragone con il Tour de France ha illuminato almeno il trenta per cento degli americani.
I lituani non potevano certo organizzare il “premiere party” (dove almeno il doppio delle persone che hanno visto il film era presente), e infatti ci ha pensato la produzione italiana: nel ristorante di uno sportivo italiano trapiantato a L.A., e tutto italiano nell’atmosfera. Dalle hostess avvicinate in continuazione dai maschi presenti (anche se accompagnati) con le scuse più assurde, alla “pseudo-coda per agguantare da mangiare”, alla musica in sottofondo presa dalla colonna sonora del party de “La Grande Bellezza” di cui questo party non aveva il tono esagerato e decadente. Qualche “vero nome” qui e la’, dal Chairman dei Golden Globes, subito trascinato su un “red carpettino”, ad un iraniano che pensavo fosse un tassista e che invece pare sia “il socio di Al Pacino” (in cosa? Gli attori producono raramente alcunché), a giornalisti sconosciuti ai più, ma che magari un trafiletto sull’Hollywood Reporter riescono a farlo passare, ad un’enorme nera in pallietes argento che parlava italiano come Dan Peterson.
E i lituani? In un angoletto all’esterno (per loro i 12 gradi che c’erano fanno primavera), insieme al regista che ha dedicato zero tempo alla stampa e alla produttrice italiana che ha evidenti doti di pubbliche relazioni, e troppo al sottoscritto, alla sua t-shirt turistica “Made in Lithuania” e ai suoi suggerimenti su come il film deve essere spiegato al pubblico americano.
Normale perché l’abilità a capire con chi parlare ai party per averne un ritorno non è parte dei social skills dei baltici!
Dubito che il film venga scelto nella cinquina dei documentari candidati agli Oscar, salvo che i membri dell’Academy si ricordino che l’anno scorso ha vinto un film sul doping nello sport, Icarus, e che Wonderful Losers è la faccia buona di quel mondo, e che dopo tutto l’Academy premia sempre le pellicole che ci fanno sentire meglio.